Tornereste a casa da una spedizione senza aver nemmeno potuto provare a scalare la montagna per cui avete tanto lavorato, faticato e sognato? Rinuncereste al vostro progetto, o chiedereste a qualcuno di farlo per paura?
Extremo Sul è questo, il racconto di un tentativo incompiuto, mai realmente cominciato, un impegno inutile, ma soprattutto la bruciante rinuncia di chi, solo, voleva tentare ma non ha potuto.
Il monte Sarmiento è un nome poco conosciuto, difficilismo da scorgere per le condizioni meteo avverse che lo nascondono per gran parte dell'anno, non molto alto, ma sicuramente impegnativo (la ripetizione della cima Est, conquistata nel 1956 dagli italiani Mauri e Maffei, è avvenuta poco tempo fa: Nuova via sul Monte Sarmiento Cima Est). Le altre spedizioni si sono concentrate sulla vicina cima Ovest, così come quella dei protagonisti del film.
La narrazione comincia esattamente come decine di altri film di genere: la preparazione della spedizione, la presentazione degli alpinisti, la descrizione della difficile meta. Da apprezzare le note storiche e culturali legate a quella zona della Patagonia, vicina a Punta Arenas, ma lontana dalla "civiltà" perchè separata dallo stretto di Magellano.
Interessanti e affascinanti le sequenze naturalistiche e paesaggistiche, che si intercalano sapientemente alle interviste sia durante la spedizione che successivamente ad essa (con un format ormai divenuto consuetudine).
Tutto si svolge secondo il copione predefinito di ogni spedizione, l'installazione del campo base, la ricerca di una via veloce e sicura d'accesso ai piedi della montagna vera e propria, lo spostamento dei materiali, finchè si scopre il backstage dietro il film, che diviene una specie di rottura della quarta parete all'interno di qualla narrazione che invece raccontava solo le azioni degli alpinisti.
Nascono i dissensi e si svela, allo spettatore consapevolmente ignaro, che oltre ai cinque protagonisti ci sono numerose altre persone: regista, troupe, alpinisti di supporto.
Il colpo di scena rompe lo schema tradizionale del film ed entra in un piccolo dramma fatto di paure e di aspettative, di rinuncia e delusione, di scontri e silenzi. Di fatto la spedizione salta ma il film acquista una dimensione umana che fino a quel momento i protagonisti non avevano saputo trasmettere.
Sono, infatti, le mediocrità e le paure di chi decide di rinunciare senza aver tentato che permettono di immergersi negli eventi raccontati. Questo è un gran successo ed un gran fallimento per il film. Grazie a questo "ammutinamento" che tutta l'opera acquista profondità e significato, ma esa riesce a coinvolgere solo dopo aver rotto la magia del racconto e aver scoperto tutto quello che c'era dietro: non è il film in sè che permette di raggiungere lo spettatore con il proprio messaggio, ma è ciò che non sarebbe stato raccontato che vi riesce.
In tutto ciò, con l'amaro in bocca (ma anche una certa ammirazione per aver avuto il coraggio di narrare un fallimento tanto vigliacco), rimane la domanda iniziale, che forse tutti si pongono quando sono sotto la propria parete: rinunceremmo senza aver lottato?
Come il film dimostra, non credo che la risposta sia poi così scontata.
La narrazione comincia esattamente come decine di altri film di genere: la preparazione della spedizione, la presentazione degli alpinisti, la descrizione della difficile meta. Da apprezzare le note storiche e culturali legate a quella zona della Patagonia, vicina a Punta Arenas, ma lontana dalla "civiltà" perchè separata dallo stretto di Magellano.
Interessanti e affascinanti le sequenze naturalistiche e paesaggistiche, che si intercalano sapientemente alle interviste sia durante la spedizione che successivamente ad essa (con un format ormai divenuto consuetudine).
Tutto si svolge secondo il copione predefinito di ogni spedizione, l'installazione del campo base, la ricerca di una via veloce e sicura d'accesso ai piedi della montagna vera e propria, lo spostamento dei materiali, finchè si scopre il backstage dietro il film, che diviene una specie di rottura della quarta parete all'interno di qualla narrazione che invece raccontava solo le azioni degli alpinisti.
Nascono i dissensi e si svela, allo spettatore consapevolmente ignaro, che oltre ai cinque protagonisti ci sono numerose altre persone: regista, troupe, alpinisti di supporto.
Il colpo di scena rompe lo schema tradizionale del film ed entra in un piccolo dramma fatto di paure e di aspettative, di rinuncia e delusione, di scontri e silenzi. Di fatto la spedizione salta ma il film acquista una dimensione umana che fino a quel momento i protagonisti non avevano saputo trasmettere.
Sono, infatti, le mediocrità e le paure di chi decide di rinunciare senza aver tentato che permettono di immergersi negli eventi raccontati. Questo è un gran successo ed un gran fallimento per il film. Grazie a questo "ammutinamento" che tutta l'opera acquista profondità e significato, ma esa riesce a coinvolgere solo dopo aver rotto la magia del racconto e aver scoperto tutto quello che c'era dietro: non è il film in sè che permette di raggiungere lo spettatore con il proprio messaggio, ma è ciò che non sarebbe stato raccontato che vi riesce.
In tutto ciò, con l'amaro in bocca (ma anche una certa ammirazione per aver avuto il coraggio di narrare un fallimento tanto vigliacco), rimane la domanda iniziale, che forse tutti si pongono quando sono sotto la propria parete: rinunceremmo senza aver lottato?
Come il film dimostra, non credo che la risposta sia poi così scontata.
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