Dopo aver studiato per più di una settimana le previsioni meteo, nella speranza che il weekend scelto fosse decente, telefono al Vittorio Emanuele II per prenotare due notti. L'idea era di fare la normale al Gran Paradiso e la parete nord della Becca di Monciair. Ovviamente il sabato notte era tutto completo.
Anticipiamo al giovedì la partenza e a venerdì la salita al GP: il meteo sembrava buono...
Il primo scorcio di sole apparso solamente durante la discesa dal Gran Paradiso |
Fare 1500 km per salire in rifugio, con ottocento metri di dislivello, alzarsi la mattina successiva alle 3.45 per partire verso la vetta con una fine pioggerellina e due belle vesciche sui talloni non è certo l'idillio di weekend che mi ero immaginato, ma c'è anche di peggio.
Da Pont, in Valsavarenche |
Partiamo da Terni con Matteo alle sei, carichiamo Max a Orte alle 6.30 e poi ci spariamo una bidonata di chilometri fino ad Ivrea dove carichiamo Marco, un collega di lavoro di Max.
Da lì al parcheggio di Pont ci si mette relativamente poco.
Giungiamo che sono le quasi le tre del pomeriggio. Il parcheggio ospita diverse automobili. Il tempo di un caffè, ci cambiamo e via di buon passo verso il rifugio da cui ci dividono ottocento metri.
Purtroppo, come un principiante, sbaglio calzini, non stringo bene gli scarponi e quando arriviamo verso le 17,20 al Vittorio Emanuele, ho due belle vesciche sui talloni che mi costringeranno a cambiare programma.
Il sentiero, ampio e facile, si inoltra dentro un bellissimo bosco per poi inerpicarsi verso l'alto con numerosi tornanti, salendo sempre di più. Il paesaggio è incantato e già dal parcheggio è possibile notare le stupende cime della Becca di Monciair e le Cime de Breuil. L'ambiente è idilliaco, e si lascia godere nonostante i pesanti zaini e una certa fatica.
Dopo quasi due ore di cammino si giunge all'inconfondibile sagoma metallica del rifugio a 2745 m.
Ciarforon, Becca di Monciair, Cime de Breuil |
Prendiamo la camera, minuscola, ma pulita e accogliente. L'atmosfera è calda, il gestore e il personale sono disponibili e molto gentili. Il rifugio sembra essere abbastanza affollato, e per qualche momento mi pare che siamo gli unici italiani tra gli ospiti: la maggior parte sono francesi.
A cena godiamo di un ottimo pasto. Mi sento bene e mangio con appetito, mentre Matteo non si sente granchè, così salta completamente il pasto e rimane in camera.
Alle otto siamo in camera a preparare gli zaini per la mattina successiva. Ci sbrighiamo, abbiamo un lungo viaggio sulle spalle e anche l'avvicinamento non è stato da poco.
Mi infilo nel sacco lenzuolo e mi addormento che fuori c'è ancora luce.
Matteo alla partenza per l'ascesa |
Quando suona la sveglia non sono ancora le 4.00. Ci vestiamo, sistemiamo le ultime cose e scendiamo a far colazione. La sala è un andirivieni caotico di persone che saliranno ai 4061 metri della vetta.
All'ingresso è un baillame di corde, moschettoni, scarponi, ramponi e piccozze.
Alle 4.50, finalmente partiamo anche noi.
Alla luce delle frontali aggiriamo sulla sinistra il rifugio e ci addentriamo nel dedalo di massi che, punteggiati da diversi ometti, permettono di giungere fino all'inizio del ghiacciaio. La progressione è faticosa, il risveglio muscolare è un po' ferraginoso, mi danno fastidio le vesciche, ma teniamo un passo tranquillo, non abbiamo fretta.
Piove! Intorno e sopra di noi si intuisce un cielo plumbeo anche nell'oscurità della notte che sta finendo. Lentamente il nero lascia il passo ad un grigiore biancastro.
Giungiamo in prossimità del ghiacciaio e calziamo i ramponi.
La traccia è evidente, seguirla è banale. La neve è umida, pesante, si affonda anche di venti, trenta centimetri fuori dalla pista battuta.
La nebbia ci nasconde ogni visuale, anche quando ormai è giorno fatto. Faticosamente progrediamo verso l'alto, lungamente. Come mi sono detto anche l'ultima volta, il ghiacciaio è ipnotico al mattino presto. In mezzo al grigiore uniforme delle nuvole che ci circondano lo è ancora di più.
Nevischia, tira vento, fa un po' freddo e mi si gela la condensa sulla barbae sulle ciglia.
Scopro un certo fascino nel procedere in silenzio in questo ambiente che non mi appartiene, in cui mi riconosco essere completamente estraneo.
In alcuni momenti le nubi sono talmente fitte che la visibilità è ridotta a una ventina, forse trenta metri. Tutt'intorno si possono solo indovinare le sagome di massi e formazioni rocciose. C'è solo bianco e grigio.
Fortuna avere una traccia così evidente da seguire.
Comincio a soffrire un po' la quota. Matteo mi informa deinostri progressi. L'altimetro è l'unica fonte di informazione sul progresso dei nostri sforzi. Diversamente sarebbe impossibile per noi stabilire dove siamo, quanta strada abbiamo percorso, quanta ce ne rimane da fare.
Saliamo alcuni pendii più ripidi, giungiamo ad una sella e cominciamo a percorrere il ghiacciaio a schiena d'asino. L'ultima fatica prima della terminale e della cresta sommitale.
Di crepacci neanche l'idea. Il ghiacciaio è decisamente gentile in questo periodo.
Arriviamo alla crepaccia che ci separa dalla vetta. Gli ultimi metri, poi le rocce, la Madonna di vetta.
Il passaggio, solitamente in stagione inoltrata attrezzato con una scala, è banale, un solido ponte di neve ghiacciata e dura che si supera con un paio di passi lunghi.
Mi costano fatica. Sono abbastanza provato dalla quota, ma noncome l'anno scorso sulla cresta del soldato. Cerco di mantenere un passo costante anche alla fine, e solo quando siamo a pochi metri dalla vetta finalmente ci appaiono le rocce che significano la fine della nostra salita.
La vetta è affollata, non in maniera drammatica, ma bisogna scansarsi, lascira passare, superare, aggirare persone, attrezzi. Al passaggio in prossimità della Madonnina dobbiamo attendere che la cordata che ci precede passi tutta.
Il passo è facile, un traverso espostissimo sul ghiacciaio della Tribolazione. Non si vede nulla e forse è un bene. Probabilmente molti si sarebbero bloccati nel vedere l'abisso di seicento metri spalacnato sotto i ramponi.
Nella nebbia si percepisce comunque la presenza incombente del vuoto che mi si pare sotto. Passo facilmente, rimonto su un sassone piatto e sono, infine in vetta.
Saluti, compliemnti, foto.
Ci giriamo e prendiamo la viadel ritorno.
Non senza titubanza affronto la discesa dal sassone. Non vedo dove metto i piedi, ho il fiato corto e la stanchezza mi rende un po' insicuro. Rifaccio il passaggio in traverso e poi giù lungo la cresta, la terminale e via sulal traccia già percorsa verso il rifugio.
Man mano che scendiamo appare prima un timido sole, poi squarci nella compatta uniformità della nebbia, infine l'azzurro di un bel cielo di inizio estate.
Il paesaggio è maestoso, fantastico, in cui gli occhi si perdono ad osservare una meraviglia per cui la fatica della salita prende significato.
Riprendo vigore con l'abbassarsi della quota. Con Marco andiamo giù veloci, cercando di sfruttare la traccia battuta dove conviene e andando a pestarne di nuova sui pendii più ripidi per scalinare. La neve è molle, faticosa, bagnata. Man mano sale la temperatura.
Poi ci si ferma ad aspettare Matteo e Max, che poi distanzierò di nuovo una volta messo piede sulla morena e tolti i ramponi.
Sono in vista del rifugio. Gli ultimi metri, dopo quasi otto ore, mi portano ad un bel piatto di pastasciutta, una vescica, scoppiata e dolorosissima, al tallone del piede destro (che mi impedirà la salita alla Becca il giorno successivo) ad un pomeriggio di giusto riposo.
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