giovedì 5 novembre 2015

Recensione - Everest

Un film tratto da una tragedia realmente accaduta, su cui un grande narratore ha scritto un bellissimo e controverso libro, di montagna e per il grande cinema, di per sè, non è un'impresa facile.
Anzi.
Per questo mi sono accostato alla visione con un atteggiamento aperto e senza pregiudizio.
Purtroppo ho peccato di troppa fiducia.

La storia che l'islandese Baltasar Kormakur vuole narrare è complessa, drammatica, tragica, impregnata e circondata da una montagna che nell'immaginario è LA montagna, la più alta, forse la più ambita, la più sfruttata, commercializzata, reclamata.
Il punto è che c'è troppo da raccontare, troppo da rappresentare per un film.
Mi viene da pensare a "Il Signore degli Anelli": trovo numerose analogie. "Everest", rispetto e contrariamente al film di Peter Jackson, è risultato, a mio parere, un'impresa al di là delle capacità di sceneggiatori, registi e (purtroppo) attori.
Il momento della telefonata satellitare tra Rob Hall e la moglie Jan si traduce in un siparietto strappalacrime che nulla a che vedere con quello che il libro di Krakaueur riesce a trasmettere al lettore.
Il carisma di Scott Fisher, uno dei più forti alpinisti americani dell'epoca, non risalta, non sfonda lo schermo, nonostante Jake Gyllenhaall sia un calibro pesante.
Jason Clarke nel ruolo di Rob Hall è semplicemente fuori posto (lo era anche come John Connor in Terminator Genisys). Semplicemente non rende il Rob Hall che Krakauer racconta.
Lo stesso Krakauer non viene raccontato quasi per nulla, nonostante Michael Kelly abbia le carte per poterlo interpretare (stupendo in House of Cards, per esempio).
Forse il problema è proprio questo. 
Il film non entra mai in profondità. Rimane sopra la superficie, vuole dire e mostrare tanto per non dire e mostrare nulla. I personaggi, complessi, ambiziosi, impauriti, terrorizzati, testardi, sfiniti, non sono neanche sbozzati; involucri vuoti cui gli attori non riescono e non possono dare profondità.
Non ci sono relazioni tra di loro, non si coglie il senso di tante azioni che fanno, delle parole che dicono, delle motivazioni che li spingono.
E la montagna, il teatro supremo del dramma, che inizia ben prima del campo base, con l'hybris dei clienti che si fanno scalatori e delle guide che cercano, più o meno consapevolmente, di imbrigliare la natura dentro un business, non fa neanche da sfondo. E' solo il titolo che ci dice che quello è l'Everest. 
Il regista non riesce a condurre nessuno laggiù e poi lassù.
E le immagini aeree, gli scorci del trekking di avvicinamento, il campo base, la seraccata, il Colle Sud, diventano dei non luoghi in cui recitano delle marionette senza anima.
Avevo sperato. Sarà per la prossima volta.

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