Non è possibile separare Walter Bonatti dalle "sue" montagne, tanto più che neanche lui l'ha fatto. Leggendo il libro si comprende appieno come l'uomo, non solo l'alpinista, trovi definizione tramite e grazie ai picchi e alle guglie che ha scalato: mai in nessun altro libro che parla di avventure in montagna ho trovato così inestricabilmente uniti umanità e natura.
Il Pilone centrale del Freney, il K2, il Gran Capucin, la sud-ovest del Dru, la nord del Cervino in invernale. Sono alcune delle imprese che racconta e basterebbe il titolo del capitolo per tentare di immaginare, probabilmente senza successo, quali difficoltà fisiche e mentali abbia superato per portare a termine quelle imprese.
La sua penna, indubbiamente autocelebrativa, indubbiamente spocchiosa, rivela appieno l'uomo. La descrizione, a volte didascalica, degli eventi rivela l'alpinista. Ma è quello che aggiunge egli stesso nel racconto che rivela il nocciolo centrale che lo muoveva. E' un'etica integerrima, durissima e severa che lo porta a confrontarsi con la superiore forza della natura e che lo plasma e lo definisce e lo rende capace di tutto ciò che ha compiuto.
E' il racconto della sua relazione con la natura, maturata attraverso una scelta a tratti anti-modernista, che non accetta i compromessi del progresso, arroccata ad un ideale romantico, che lo rende ammirato e ammirabile.
E se risulta spocchioso, rancoroso, narcisistico, beh, credo che una sola delle sue salite basterebbe a rendere ogni turista della montagna un perfetto imbecille pieno di sè.
Bonatti invece piuttosto che tradire la sua ferrea morale accetta il cambiamento, pur mantenendo integro il rapporto uomo-natura, si trasforma da esploratore delle montagne a esploratore della natura in giro per il mondo, ma come ogni grande personaggio lo fa con un colpo da maestro che difficilmente potrà trovare uguali.
Il Cervino. In inverno. Per una via nuova. In solitaria.
Chapeau Walter, chapeau.
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