La redazione di altitudini.it ha pubblicato questo mio pensiero sulla morte della guida alpina francese, brutalmente assassinata da un gruppo di miliziani algerini chiamato Jund al-Khilafa.
Dopo aver letto la
notizia ho avuto difficoltà a capire cosa provassi. Diamine, ho
avuto difficoltà anche a capire cosa fosse giusto provare.
In fondo Hervè Gourdel è
un nome come tanti altri, il nome di una persona che non conoscevo e
di cui so quel poco che si può intuire da ciò che si trova in rete,
il nome di un turista, il nome di chi ha fatto una morte orribile,
inspiegabile, ingiusta.
Non c'è nulla che si
possa dire, scrivere o addirittura pensare sul fatto in sé, che non
sia retorica vuota, inutile, perfino irrispettosa.
E che cosa aggiungere su
questi gruppi terroristici, sulle guerre, i conflitti, le morti
atroci, i cosiddetti danni collaterali, la fame e la miseria che ne
consegue, che non divenga una scopiazzatura indegna di ciò che viene
scritto sui giornali e raccontato dagli inviati speciali?
Mi viene in mente, mentre
scrivo, solo l'episodio, diverso e distante, nel tempo e nello
spazio, dell'attentato al campo base del Nanga Parbat. E più ci
penso e più mi rendo conto di quanto, invece, siano simili.
Quest'uomo assassinato,
turista, montanaro, guida alpina, sicuramente profondo conoscitore di
luoghi in cui si focalizzano le paure delle persone, ha dovuto
affrontare e soccombere a qualcosa che è incomprensibile se non
arrendendosi alle bieche e amorali regole che questo mondo del
duemila ci sta imponendo.
Spesso guardo chi vive
così intensamente la montagna e ammiro il loro coraggio, la loro
freddezza e determinazione, la capacità di leggere la natura, gli
eventi, i pericoli, e magari, solo magari però, decidere di
affrontarli di buttarvisi contro e cercare di uscirne il più indenni
possibile.
Quest'uomo di
cinquantacinque anni stava conducendo un trekking, stava esplorando
una regione del mondo per lui sconosciuta, nuova, meravigliosa in cui
condurre familiari e clienti. Aveva con sé un grande bagaglio di
conoscenze, esperienza di montagna e quindi, per forza di cose, di
vita vissuta a contatto con il pericolo, con le proprie paure e
timori, in un confronto con le proprie insicurezze.
Eppure ha trovato
qualcosa che tutta la sua esperienza, in alpi, himalaya, e chissà
quante altre catene e gruppi montuosi, non lo aveva preparato ad
affrontare.
Non c'è nulla che la
montagna, per quanto possano essere insidiose e subdole le
condizioni, per quanto possano essere alte le difficoltà tecniche,
per quanto grandi possano divenire le incertezze e i dubbi, gli
avrebbe potuto insegnare per affrontare ciò che ha affrontato.
Leggo le storie delle
avventure e delle tragedie vissute dai grandi alpinisti che hanno
fatto la storia: quello che in assoluto accomuna tutti, a prescindere
da cosa, come e dove abbiano vissuto una data esperienza, è che la
montagna gli ha permesso di scoprirsi più forti di quanto credessero
all'inizio.
Anche di fronte ad un
fallimento.
Walter Bonatti scriveva
che le montagne hanno il valore dell'uomo che le scala. E credo che
quel valore, ad ogni nuova e vera prova ne sia innalzato, portato ad
un nuovo livello. E credo pure che quel valore, quel nuovo essere
umano che torna da un'esperienza bella o brutta, positiva o negativa,
inebriante o dolorosa, porti con sé qualcosa che, se saggiamente
impiegato, può aiutare a vivere ed affrontare meglio la vita in
basso, in pianura, in città.
Eppure non c'è nulla,
nessuna scalata, nessuna via, nessuna parete che può prepararci
all'odio che l'uomo stesso genera e spande e diffonde con tanta
violenta generosità.
L'alpinismo e più in
generale l'andar per monti, nella sua storia fatta anche di ombre,
nell'esperienza di ciascuno, nei racconti di chi attraversa
esperienze vere e intense, nello sguardo di chi ci vive, nel silenzio
che si può cogliere solo lassù, nell'amicizia che si instaura fra
due veri compagni di cordata, insegna l'amore.
Non l'amore passionale,
non quello mercificato, ma quello che ha la capacità di
sorprenderci, di stupirci per una natura che sogniamo per tutta la
settimana, quello che ci costa fatica, che ci mette paura. Che
qualche volta arriva al sacrificio estremo. Quello vero. Perché è
questo l'amore. Sofferenza, timore, stupore, gioia, felicità.
Ecco, Hervè Gourdel non
poteva essere pronto a trovare l'odio in mezzo alle montagne, non
poteva essere preparato. Questo è ciò che credo.
Quello che ho faticato a
capire sta proprio qui: quell'odio e quell'amore non possono trovare
dimora nello stesso luogo. E in fondo, almeno questo è quello che
vale per me, ciò che mi ha disturbato di più, proprio come la morte
di quegli alpinisti al Nanga Parbat, è l'impossibilità di mettere
insieme due realtà che non possono stare assieme.
Ciò che mi ha
interrogato e indignato è che quell'orrore blasfemo è avvenuto in
un luogo che considero sacro. Hanno insozzato quello che per molti,
per tanti che amano visceralmente le montagne, il loro silenzio, la
loro austerità e la loro fredda e indomabile bellezza, è un tempio
dell'amore. Un luogo, fisico o mentale, in cui ci si avvicina
materialmente al mondo inconoscibile e tremendo del mistero. Talmente
affascinante e talmente importante per gli uomini da divenire
addirittura sacro, dove soffrire, sperare, amare, sacrificarsi.
Sono convinto, mio
malgrado e nonostante sia e debba essere ottimista, che non sarà
l'ultimo tempio ad essere violato e non sarà l'ultima vita ad essere
immolata all'altare della violenza.
E, infine, c'è un
timore, una domanda che sorge, che non riesco a far tacere.
Quando anche l'ultimo
luogo incontaminato di questo mondo sarà sporcato dalla malvagità
cosa ci rimarrà? Dove potremo trovare veramente rifugio, senza
essere terrorizzati, senza vivere nella paura dell'odio? Senza dover
odiare a nostra volta?
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