lunedì 29 settembre 2014

La morte di Hervè Pierre Gourdel

La redazione di altitudini.it ha pubblicato questo mio pensiero sulla morte della guida alpina francese, brutalmente assassinata da un gruppo di miliziani algerini chiamato Jund al-Khilafa.



Dopo aver letto la notizia ho avuto difficoltà a capire cosa provassi. Diamine, ho avuto difficoltà anche a capire cosa fosse giusto provare.
In fondo Hervè Gourdel è un nome come tanti altri, il nome di una persona che non conoscevo e di cui so quel poco che si può intuire da ciò che si trova in rete, il nome di un turista, il nome di chi ha fatto una morte orribile, inspiegabile, ingiusta.
Non c'è nulla che si possa dire, scrivere o addirittura pensare sul fatto in sé, che non sia retorica vuota, inutile, perfino irrispettosa.
E che cosa aggiungere su questi gruppi terroristici, sulle guerre, i conflitti, le morti atroci, i cosiddetti danni collaterali, la fame e la miseria che ne consegue, che non divenga una scopiazzatura indegna di ciò che viene scritto sui giornali e raccontato dagli inviati speciali?

Mi viene in mente, mentre scrivo, solo l'episodio, diverso e distante, nel tempo e nello spazio, dell'attentato al campo base del Nanga Parbat. E più ci penso e più mi rendo conto di quanto, invece, siano simili.

Quest'uomo assassinato, turista, montanaro, guida alpina, sicuramente profondo conoscitore di luoghi in cui si focalizzano le paure delle persone, ha dovuto affrontare e soccombere a qualcosa che è incomprensibile se non arrendendosi alle bieche e amorali regole che questo mondo del duemila ci sta imponendo.
Spesso guardo chi vive così intensamente la montagna e ammiro il loro coraggio, la loro freddezza e determinazione, la capacità di leggere la natura, gli eventi, i pericoli, e magari, solo magari però, decidere di affrontarli di buttarvisi contro e cercare di uscirne il più indenni possibile.
Quest'uomo di cinquantacinque anni stava conducendo un trekking, stava esplorando una regione del mondo per lui sconosciuta, nuova, meravigliosa in cui condurre familiari e clienti. Aveva con sé un grande bagaglio di conoscenze, esperienza di montagna e quindi, per forza di cose, di vita vissuta a contatto con il pericolo, con le proprie paure e timori, in un confronto con le proprie insicurezze.
Eppure ha trovato qualcosa che tutta la sua esperienza, in alpi, himalaya, e chissà quante altre catene e gruppi montuosi, non lo aveva preparato ad affrontare.
Non c'è nulla che la montagna, per quanto possano essere insidiose e subdole le condizioni, per quanto possano essere alte le difficoltà tecniche, per quanto grandi possano divenire le incertezze e i dubbi, gli avrebbe potuto insegnare per affrontare ciò che ha affrontato.
Leggo le storie delle avventure e delle tragedie vissute dai grandi alpinisti che hanno fatto la storia: quello che in assoluto accomuna tutti, a prescindere da cosa, come e dove abbiano vissuto una data esperienza, è che la montagna gli ha permesso di scoprirsi più forti di quanto credessero all'inizio.
Anche di fronte ad un fallimento.
Walter Bonatti scriveva che le montagne hanno il valore dell'uomo che le scala. E credo che quel valore, ad ogni nuova e vera prova ne sia innalzato, portato ad un nuovo livello. E credo pure che quel valore, quel nuovo essere umano che torna da un'esperienza bella o brutta, positiva o negativa, inebriante o dolorosa, porti con sé qualcosa che, se saggiamente impiegato, può aiutare a vivere ed affrontare meglio la vita in basso, in pianura, in città.
Eppure non c'è nulla, nessuna scalata, nessuna via, nessuna parete che può prepararci all'odio che l'uomo stesso genera e spande e diffonde con tanta violenta generosità.
L'alpinismo e più in generale l'andar per monti, nella sua storia fatta anche di ombre, nell'esperienza di ciascuno, nei racconti di chi attraversa esperienze vere e intense, nello sguardo di chi ci vive, nel silenzio che si può cogliere solo lassù, nell'amicizia che si instaura fra due veri compagni di cordata, insegna l'amore.
Non l'amore passionale, non quello mercificato, ma quello che ha la capacità di sorprenderci, di stupirci per una natura che sogniamo per tutta la settimana, quello che ci costa fatica, che ci mette paura. Che qualche volta arriva al sacrificio estremo. Quello vero. Perché è questo l'amore. Sofferenza, timore, stupore, gioia, felicità.
Ecco, Hervè Gourdel non poteva essere pronto a trovare l'odio in mezzo alle montagne, non poteva essere preparato. Questo è ciò che credo.
Quello che ho faticato a capire sta proprio qui: quell'odio e quell'amore non possono trovare dimora nello stesso luogo. E in fondo, almeno questo è quello che vale per me, ciò che mi ha disturbato di più, proprio come la morte di quegli alpinisti al Nanga Parbat, è l'impossibilità di mettere insieme due realtà che non possono stare assieme.
Ciò che mi ha interrogato e indignato è che quell'orrore blasfemo è avvenuto in un luogo che considero sacro. Hanno insozzato quello che per molti, per tanti che amano visceralmente le montagne, il loro silenzio, la loro austerità e la loro fredda e indomabile bellezza, è un tempio dell'amore. Un luogo, fisico o mentale, in cui ci si avvicina materialmente al mondo inconoscibile e tremendo del mistero. Talmente affascinante e talmente importante per gli uomini da divenire addirittura sacro, dove soffrire, sperare, amare, sacrificarsi.
Sono convinto, mio malgrado e nonostante sia e debba essere ottimista, che non sarà l'ultimo tempio ad essere violato e non sarà l'ultima vita ad essere immolata all'altare della violenza.
E, infine, c'è un timore, una domanda che sorge, che non riesco a far tacere.
Quando anche l'ultimo luogo incontaminato di questo mondo sarà sporcato dalla malvagità cosa ci rimarrà? Dove potremo trovare veramente rifugio, senza essere terrorizzati, senza vivere nella paura dell'odio? Senza dover odiare a nostra volta?

Nessun commento:

Posta un commento