Ore 13.00 circa.
Sento Francesco che urla il mio nome contemporaneamente a un gran fracasso di rocce che si muovono. Mi giro, ma già so che sta succedendo.
Per la prima volta in vita mia faccio l'esperienza della dilatazione del tempo. Non ricordo esattamente cosa è successo ma quello che ho pensato.
Tante cose, tanti pensieri. Anche le sensazioni, le percezioni. Ricordo esattamente l'odore di bruciato, quello provocato dall'attrito della roccia sulla roccia.
Tante cose, tanti pensieri. Anche le sensazioni, le percezioni. Ricordo esattamente l'odore di bruciato, quello provocato dall'attrito della roccia sulla roccia.
Ricordo anche la paura. Quella che mi ha immobilizzato.
Era da parecchio che progettavamo un bel giro su qualche quattromila. Questa data era fissa da tempo e avevamo anche prenotato due posti al Mantova dove avremmo raggiunto degli amici di Francesco. La nostra intenzione era fare la cresta del Soldato che l'anno scorso ci era stato impossibile fare per poi, il giorno dopo, la cresta Sella al Lyskamm Orientale.
Progetto ambizioso.
Dormiamo il venerdì notte in un delizioso ed economico affittacamere (che vi consiglio, la Genzianella). La sera prepariamo scrupolosamente il materiale, e poi ce ne andiamo a dormire.
La mattina, all'apertura siamo di fronte agli impianti che da Staffal ci fanno salire fino a P.ta Indren. Alla Funifor che dal passo dei Salati ci proietta a 3275, siamo circondati da guide e clienti.
Le previsioni davano una giornata a tratti nuvolosa, con schiarite, ma il cielo che ci accoglie è grigio, uniforme, cupo, con piccoli sprazzi di azzurro che subito vengono celati.
La mattina, all'apertura siamo di fronte agli impianti che da Staffal ci fanno salire fino a P.ta Indren. Alla Funifor che dal passo dei Salati ci proietta a 3275, siamo circondati da guide e clienti.
Le previsioni davano una giornata a tratti nuvolosa, con schiarite, ma il cielo che ci accoglie è grigio, uniforme, cupo, con piccoli sprazzi di azzurro che subito vengono celati.
Siamo dove eravamo un anno fa. Questa volta, però, andiamo completamente a destra, verso il vecchio arrivo degli impianti e, poi, la sella tra la P.ta Vittoria e la cresta del Soldato.
Siamo carichi, vogliosi.
Francesco ha più quota di me sulle spalle, le uscite che frequenta spesso con la SOSAT di Trento gli hanno permesso un miglior acclimatamento. Io mi sento col fiato cortissimo, fatico e anche se sono reduce da due giorni di febbre e ho una tosse fastidiosa, mi rendo conto di non essere in forma. Cerco di tenere un passo costante ma, come l'anno scorso, sento addosso la difficoltà che un ambiente come questo impone.
Avanti a noi due cordate, ma ci lasceranno indietro. Alla fine non abbiamo fretta: la sera ci aspetta il rifugio Mantova e non vogliamo esaurirci visto il programma del giorno dopo.
Giungiamo finalmente sotto la cresta.
Le condizioni non sono eccezionali. C'è neve e non sapendo se incontreremo ghiaccio decidiamo di arrampicare con i ramponi ai piedi.
E' una progressione che mi mette un po' in difficoltà all'inizio ma poi prendo confidenza e riesco a sfruttare bene le punte, le fessure, gli appigli. Mi sento comunque stanco, ma è bello arrampicare in un ambiente così lontano dal mio quotidiano.
Tenere il filo della cresta non è banale. Ci sembra che ci possano essere delle cornici e non ci fidiamo molto. La nebbia non ci aiuta e così saliamo esplorando con lo sguardo i successivi dieci, venti metri, andiamo a sensazioni, ad intuito. Ma, un po' seguendo le tracce sulle sellette innevate, un po' i graffi delle ramponate sulla roccia, un po' qualche protezione incastrata, proseguiamo bene in via.
Ci alterniamo in conserva. Qualche sezione che ci pare più impegnativa la tiriamo assicurandoci. Francesco va e alla grande. Lo vedo sicuro e concentrato.
Siamo carichi, vogliosi.
Francesco ha più quota di me sulle spalle, le uscite che frequenta spesso con la SOSAT di Trento gli hanno permesso un miglior acclimatamento. Io mi sento col fiato cortissimo, fatico e anche se sono reduce da due giorni di febbre e ho una tosse fastidiosa, mi rendo conto di non essere in forma. Cerco di tenere un passo costante ma, come l'anno scorso, sento addosso la difficoltà che un ambiente come questo impone.
Avanti a noi due cordate, ma ci lasceranno indietro. Alla fine non abbiamo fretta: la sera ci aspetta il rifugio Mantova e non vogliamo esaurirci visto il programma del giorno dopo.
Giungiamo finalmente sotto la cresta.
Le condizioni non sono eccezionali. C'è neve e non sapendo se incontreremo ghiaccio decidiamo di arrampicare con i ramponi ai piedi.
E' una progressione che mi mette un po' in difficoltà all'inizio ma poi prendo confidenza e riesco a sfruttare bene le punte, le fessure, gli appigli. Mi sento comunque stanco, ma è bello arrampicare in un ambiente così lontano dal mio quotidiano.
Tenere il filo della cresta non è banale. Ci sembra che ci possano essere delle cornici e non ci fidiamo molto. La nebbia non ci aiuta e così saliamo esplorando con lo sguardo i successivi dieci, venti metri, andiamo a sensazioni, ad intuito. Ma, un po' seguendo le tracce sulle sellette innevate, un po' i graffi delle ramponate sulla roccia, un po' qualche protezione incastrata, proseguiamo bene in via.
Ci alterniamo in conserva. Qualche sezione che ci pare più impegnativa la tiriamo assicurandoci. Francesco va e alla grande. Lo vedo sicuro e concentrato.
Intorno a noi non si vede più nulla. E' solo con qualche schiarita che riusciamo a individuare la direzione migliore. Quando sono avanti io riesco meglio a gestire le energie, a tirare il fiato, ad arrampicare. E così proseguiamo: io e lui, alternati, facendo attenzione, studiandoci, per quanto possibile, dove è meglio passare.
Sono circa le 13.00 circa.
Sono seduto sotto una specie di tettino. Siamo a quasi 3900m. Sto tirando il fiato dopo qualche passo un po' faticoso ma facile. Francesco è in conserva ad un paio di metri da me, leggermente più basso.
Con lo sguardo cerco di districarmi in mezzo alle nebbie. Se ogni tanto si aprisse sarebbe più facile orientarsi, più che altro che cercare il facile e non trovarsi a fare passaggi più impegnativi del necessario visti i ramponi.
Sento Francesco che urla il mio nome contemporaneamente a un gran fracasso di rocce che si muovono. Mi giro, ma già so che sta succedendo.
Ho paura.
Ho paura perchè vedo il volto del mio compagno, del mio grande amico, che ha paura come me.
Ho paura perchè il cervello non si accende e non mi dice cosa devo fare.
Ho paura perchè l'istinto non sa reagire a questa situazione.
"Non capita sempre agli altri"
"Cazzo, è sotto le pietre"
"Adesso andiamo giù"
Non so se sono esattamente i pensieri che ho avuto, ma ci si avvicinano quel tanto da rendere l'idea. E questo in qualche manciata di secondi.
Non voglio fare il melodrammatico, ma si, ho visto quanto può passare vicino la morte, quanto possa essere liberatorio tirare il fiato perchè sono vivo e perchè il mio compagno, parla, respira, si muove.
Le pietre sono cadute, grandi, enormi, lo hanno colpito, schiacciato, hanno incastrato le corde senza tranciarle. Sono volate giù. Un gran fracasso, un rumore che mi ha terrorizzato, per quello che significa e per quello che avrebbe potuto significare.
Poi siamo soli, nel silenzio e nelle nebbie che ci avvolgono.
Francesco sanguina, ma si muove, respira. Si siede. Ci mettiamo in una posizione comoda. Chiamo i soccorsi, con difficoltà perchè il cellulare non prende, ma alla fine allerto il 118.
Sono scosso. Mentre cerco, per quanto possibile di aiutarlo e di aiutarmi, mentre filo la corda per disincastrarla, cerco i cerotti nello zaino, sento che l'emozione monta e non posso fare a meno di piangere.
Già, cazzo. Non so bene che tipo di lacrime siano. Un miscuglio di tante sensazioni, pensieri, paure. Siamo ancora vivi. Non è grave.
Potevamo essere morti.
Potevo morire.
Non avevo mai realmente pensato alla morte in montagna.
Stavolta la montagna c'ha permesso di tornare. E io, il mio cero in chiesa l'ho acceso. Non c'entra la religione, perlomeno non per tutti c'entra. L'ho acceso perchè a trentasei anni ho compreso fino in fondo che la mia vita non è nelle mie mani.
E perchè questa volta la posso raccontare insieme al mio compagno.
Dopo quaranta minuti di attese, di tentativi al cellualre, riprendiamo a muoverci. Francesco si sente sufficientemente bene per provare a proseguire. Mi fido del suo giudizio: non sarei qui con lui se non fosse così.
Vado avanti e cerco di districarmi come meglio posso.
L'unica preoccupazione vera è la ferita sotto al mento. Non sanguina più molto dopo la lunga applicazione di ghiaccio ma il sangue c'è stato e parecchio pure. Ha dolore alle costole, ma continua ad essere vigile e loquace.
Mi sento abbastanza provato, ma Francesco mi sprona, mi parla e parla a stesso. Cerca di tirarmi su. Tra i due credo di essere io il più spaventato, ma tra un tiro, qualche aiuto con la corda per non fargli sollecitare troppo il torace e qualche tentativo di chiamata, giungo sotto la placca gialla con il passo di IV.
Un sms del soccorso mi fa capire che la macchina si è mossa.
Aggiriamo la placca e proseguiamo a sinistra, poi in alto.
Infine una voce. Siamo stati individuati.
Due guide che erano alla Capanna Gnifetti con dei clienti sono arrivate.
Ci leghiamo con loro. Si parla, chiedono che cosa è successo, per quanto possibile si accertano delle condizioni del mio compagno. Lo bendano.
Si fa qualche battuta.
Siamo qualche decina di metri sotto la vetta. Proseguiamo con loro, ma non ci sono altre difficoltà. Francesco mi dice che alla fine abbiamo portato a casa la scalata. Sorrido. Sembra uno che ha mal di denti.
Uno sprazzo, che pare scenografico, quasi comandato, mi da la sensazione di essere uscito da un brutto, grigio e roccioso tunnel.
Il resto non è niente. Scendiamo a Indren a piedi. Lungamente e con fatica. Le persone che ci circondano chiacchierano.
Penso a che sforzo hanno computo per venirci incontro.
Alla fine saremmo usciti da soli. La normale della Giordani è facile e non abbiamo trovato un crepaccio aperto tanta era la neve sul ghiacciaio. Ma sentirmi circondato da calore, competenza e altruismo mi ha fatto comprendere quanto queste persone siano fondamentali ed importanti.
Guide alpine, soccorritori della Guardia di Finanza, operatori del 118, anche i tecnici degli impianti di risalita. Lì per noi, perchè in quel momento avevamo bisogno. Noi eravamo autonomi, abbiamo scalato e siamo usciti quasi in vetta, abbiamo evitato un soccorso difficile e lungo, questo soprattutto per merito di Francesco, ma loro, i soccorsi, erano pronti ad "un lungo pomeriggio", come ha detto un finanziere, per venirci a prendere, fosse stato necessario.
Mentre scendevo a casa in treno ho avuto modo di riflettere.
Qualcuno mi ha chiesto se questa era l'occasione per smettere di andare in montagna. Qualcun'altro mi ha ricordato che con le responsabilità di una famiglia sulle spalle non ci si deve mettere in condizione di così grande pericolo.
Non lo so.
La penso diversamente e questa (dis)avventura mi conferma ciò in cui credo.
E' vero ci, è andata di lusso.
Ed è vero, potevo e potevamo essere morti. E in questa frase non c'è retorica o melodramma: è solo una costatazione oggettiva di quello che è accaduto.
Solo un ultima considerazione. Al passo dei Salati, mentre aspettavo di montare in jeep con i tecnici degli impianti per scendere a Staffal, ho scattato questa foto:
per me, ma è il mio pensiero e vale quello che vale, non c'è altro da aggiungere.
Sono circa le 13.00 circa.
Sono seduto sotto una specie di tettino. Siamo a quasi 3900m. Sto tirando il fiato dopo qualche passo un po' faticoso ma facile. Francesco è in conserva ad un paio di metri da me, leggermente più basso.
Con lo sguardo cerco di districarmi in mezzo alle nebbie. Se ogni tanto si aprisse sarebbe più facile orientarsi, più che altro che cercare il facile e non trovarsi a fare passaggi più impegnativi del necessario visti i ramponi.
Sento Francesco che urla il mio nome contemporaneamente a un gran fracasso di rocce che si muovono. Mi giro, ma già so che sta succedendo.
Ho paura.
Ho paura perchè vedo il volto del mio compagno, del mio grande amico, che ha paura come me.
Ho paura perchè il cervello non si accende e non mi dice cosa devo fare.
Ho paura perchè l'istinto non sa reagire a questa situazione.
"Non capita sempre agli altri"
"Cazzo, è sotto le pietre"
"Adesso andiamo giù"
Non so se sono esattamente i pensieri che ho avuto, ma ci si avvicinano quel tanto da rendere l'idea. E questo in qualche manciata di secondi.
Non voglio fare il melodrammatico, ma si, ho visto quanto può passare vicino la morte, quanto possa essere liberatorio tirare il fiato perchè sono vivo e perchè il mio compagno, parla, respira, si muove.
Le pietre sono cadute, grandi, enormi, lo hanno colpito, schiacciato, hanno incastrato le corde senza tranciarle. Sono volate giù. Un gran fracasso, un rumore che mi ha terrorizzato, per quello che significa e per quello che avrebbe potuto significare.
Poi siamo soli, nel silenzio e nelle nebbie che ci avvolgono.
Francesco sanguina, ma si muove, respira. Si siede. Ci mettiamo in una posizione comoda. Chiamo i soccorsi, con difficoltà perchè il cellulare non prende, ma alla fine allerto il 118.
Sono scosso. Mentre cerco, per quanto possibile di aiutarlo e di aiutarmi, mentre filo la corda per disincastrarla, cerco i cerotti nello zaino, sento che l'emozione monta e non posso fare a meno di piangere.
Già, cazzo. Non so bene che tipo di lacrime siano. Un miscuglio di tante sensazioni, pensieri, paure. Siamo ancora vivi. Non è grave.
Potevamo essere morti.
Potevo morire.
Non avevo mai realmente pensato alla morte in montagna.
Stavolta la montagna c'ha permesso di tornare. E io, il mio cero in chiesa l'ho acceso. Non c'entra la religione, perlomeno non per tutti c'entra. L'ho acceso perchè a trentasei anni ho compreso fino in fondo che la mia vita non è nelle mie mani.
E perchè questa volta la posso raccontare insieme al mio compagno.
Dopo quaranta minuti di attese, di tentativi al cellualre, riprendiamo a muoverci. Francesco si sente sufficientemente bene per provare a proseguire. Mi fido del suo giudizio: non sarei qui con lui se non fosse così.
Vado avanti e cerco di districarmi come meglio posso.
L'unica preoccupazione vera è la ferita sotto al mento. Non sanguina più molto dopo la lunga applicazione di ghiaccio ma il sangue c'è stato e parecchio pure. Ha dolore alle costole, ma continua ad essere vigile e loquace.
Mi sento abbastanza provato, ma Francesco mi sprona, mi parla e parla a stesso. Cerca di tirarmi su. Tra i due credo di essere io il più spaventato, ma tra un tiro, qualche aiuto con la corda per non fargli sollecitare troppo il torace e qualche tentativo di chiamata, giungo sotto la placca gialla con il passo di IV.
Un sms del soccorso mi fa capire che la macchina si è mossa.
Aggiriamo la placca e proseguiamo a sinistra, poi in alto.
Infine una voce. Siamo stati individuati.
Due guide che erano alla Capanna Gnifetti con dei clienti sono arrivate.
Ci leghiamo con loro. Si parla, chiedono che cosa è successo, per quanto possibile si accertano delle condizioni del mio compagno. Lo bendano.
Si fa qualche battuta.
Siamo qualche decina di metri sotto la vetta. Proseguiamo con loro, ma non ci sono altre difficoltà. Francesco mi dice che alla fine abbiamo portato a casa la scalata. Sorrido. Sembra uno che ha mal di denti.
Uno sprazzo, che pare scenografico, quasi comandato, mi da la sensazione di essere uscito da un brutto, grigio e roccioso tunnel.
Il resto non è niente. Scendiamo a Indren a piedi. Lungamente e con fatica. Le persone che ci circondano chiacchierano.
Penso a che sforzo hanno computo per venirci incontro.
Alla fine saremmo usciti da soli. La normale della Giordani è facile e non abbiamo trovato un crepaccio aperto tanta era la neve sul ghiacciaio. Ma sentirmi circondato da calore, competenza e altruismo mi ha fatto comprendere quanto queste persone siano fondamentali ed importanti.
Guide alpine, soccorritori della Guardia di Finanza, operatori del 118, anche i tecnici degli impianti di risalita. Lì per noi, perchè in quel momento avevamo bisogno. Noi eravamo autonomi, abbiamo scalato e siamo usciti quasi in vetta, abbiamo evitato un soccorso difficile e lungo, questo soprattutto per merito di Francesco, ma loro, i soccorsi, erano pronti ad "un lungo pomeriggio", come ha detto un finanziere, per venirci a prendere, fosse stato necessario.
Mentre scendevo a casa in treno ho avuto modo di riflettere.
Qualcuno mi ha chiesto se questa era l'occasione per smettere di andare in montagna. Qualcun'altro mi ha ricordato che con le responsabilità di una famiglia sulle spalle non ci si deve mettere in condizione di così grande pericolo.
Non lo so.
La penso diversamente e questa (dis)avventura mi conferma ciò in cui credo.
E' vero ci, è andata di lusso.
Ed è vero, potevo e potevamo essere morti. E in questa frase non c'è retorica o melodramma: è solo una costatazione oggettiva di quello che è accaduto.
Solo un ultima considerazione. Al passo dei Salati, mentre aspettavo di montare in jeep con i tecnici degli impianti per scendere a Staffal, ho scattato questa foto:
per me, ma è il mio pensiero e vale quello che vale, non c'è altro da aggiungere.
Purtroppo è quello che potrebbe capitare a chiunque di noi, tante volte ci è andata bene, altre ci siamo andati molto vicini e ad alcuni amici non è andata così di lusso. Fino a quando non ci tocca da vicino non ci vogliamo pensare mai abbastanza ma quando qualcosa va storto ecco che si aprono mille dubbi. Ma se poi la nostra mente ha memorizzato qualcosa che come te vedi nell'ultima tua foto , allora ecco che togli dal primo piano il lato negativo e lo parcheggi in un angolo del cervello. E' latente ma sempre vivo, ci puoi convivere ma non eliminarlo. E quando non riesci più a conviverci allora vuol dire che è arrivato il momento di smettere, ti puoi prendere una pausa e ritornare poi più carico per fare quello che amiamo fare o puoi anche dargli un taglio definitivo. Dobbiamo comunque essere sempre consapevoli che quello che ti è successo potrebbe sempre accadere, on potremmo continuare ad andare in montagna se dovessimo continuare a pensarci. E allora facciamo come i bambini che inconsciamente ci avviciniamo al pericolo attratti da questo magnete nascosto che non ci lascia andare!
RispondiEliminaFaccio molta fatica in questo momento a pensare di non andare più in montagna, spero che quel momento arrivi più tardi possibile e spero che in quel momento sarò in grado di accettarlo.
Ciaooo
Ti ringrazio delle belle parole chiunque tu sia
EliminaIl 28 Luglio 2014 e` morto sul Cresta del Soldato il nostro amico 'Francesco'
RispondiEliminavedere:
http://www.lastampa.it/2014/07/28/edizioni/vercelli/un-istruttore-esperto-lalpinista-morto-sul-monte-rosa-YAU3Xil0XlqQhJ1JyVZagL/pagina.html
La tua relazione ci ha fatto molto pensare a quello che e` probabilmente successo al nostro amico.
Condividiamo anche le tue reflessione.
Frederic (e Ste)
Ciao, ho saputo e ho avuto la fortuna di ricevere anche un'email appassionata e commovente. Non posso che esservi vicino con la mente e con il cuore nel vostro dolore.
EliminaGrazie per le vostre parole, spero un giorno di poterviincontrare in montagna.
Bruno
"...spero che, se ami davvero la montagna, se i tuoi occhi brillano ogni volta che arrivi in cima non smetterai mai di salire e di respirare a fondo l'aria che solo lassù si può sentire..e se te lo dice una che in un'istante ha perso pezzo della propria vita...ci puoi credere" giusto Fred e Ste? Un abbraccio a tutti. Nadia
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